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Drosophila Melanogaster di Massimo Napoli - Interno - 14 foto di Gianvito Ricciardi

Drosophila Melanogaster
foto del 1977


Prefazione al catalogo in mostra

Massimo Napoli è un attore cresciuto nell’avanguardia teatrale  degli anni  70 /80.  Ha lavorato con Giuliano Vasilicò, Aldo Braibanti, Luca Ronconi . E’ scrittore, pittore e collezionista. Intellettuale esperto di teatro, pittura, letteratura, storia dell’arte. E’ minuto, elegante, educato e sensibile, vive in una casa bellissima sempre in ordine e pulita.

Un giorno a casa sua mi mostra un piatto di ceramica appeso ad una parete  e mi dice: “ vedi questo l’ha dipinto Drosophila Melanogaster nel 1977”. Mi spiega che è stata una scrittrice di successo vissuta nello stesso periodo di Liala, ma a differenza di quest’ultima che esalta le virtù dei ceti sociali più elevati,  Drosophila svela  nei suoi scritti la crudeltà nascosta nei comportamenti borghesi e aristocratici per  mantenere i propri privilegi.

I riferimenti  a Bontempelli nella biografia di Drosophila  mi spingono a leggere vita e morte di Adria e dei suoi figli dove scopro una figura femminile di un disumano autolesionismo pur di lasciare la sua celebre ed irraggiungibile bellezza nel mito,  con  la folla delinquente di Drosophila  Melanogaster  scopro invece una donna altrettanto bella ma  libera nell’animo e nella mente da qualsiasi lusinga altoborghese.

Parlando con Massimo chiedo se è veramente esistita questa scrittrice e avverto che  non è una domanda  da porre,  per non  sentirsi  frastornati. Non ha importanza  capire  dove inizia il gioco e dove finisce il vero.  Quando abbandono  la curiosità  riesco a  godere  della sottile ironia che serpeggia in tutte le dimensioni del personaggio,  dai titoli dei libri così cupi e carichi di dolorosi presagi con copertine invece dal tratto leggiadro e decorativo, ai disegni dell'utensileria da cucina della buona matrigna, simbolo del posto che spetta alle serve, concetto che suscita indignazione mista a sorriso.
Massimo mi parla anche di un testamento mai aperto che Drosophila ha lasciato a suo figlio “Massimo” con l’impegno di aprirlo soltanto a più di 30 anni dalla sua morte avvenuta nel 1975.

Propongo di fare una mostra  su Drosophila Melanogaster , ed aprire con l’occasione il testamento.
Riconosco che Massimo Napoli con questa mostra svela il suo animo, la sua sensibilità  e generosamente ci regala le sue conoscenze culturali, artistiche ed umane.
Questa mostra è un dovere sociale, un riscatto morale per tutte le sofferenze inflitte dalla meschina cultura benpensante. E’ un omaggio che Massimo Napoli con il mio incoraggiamento e con la disponibilità di Claudia Quintieri, dedica a tutte le persone che hanno subito e subiranno un’ ingiusta condanna  per essere state anime libere.

Dedicato ad Aldo Braibanti

Rossella Alessandrucci


Mostra del 21/02/2017
Interno 14
foto di Gianvito Ricciardi













 SEGRETO EPISTOLARE di DROSOPHILA MELANOGASTER 
  (da rivelare dopo più di trent’anni dalla sua morte). 

Anche ora che sto per morire, e ne avrò giusto il tempo di terminare questo mio scritto, provo un vero desiderio di vivere. Una gioia di vivere connaturata in me e sempre repressa dagli eventi. Da ragazza, ascoltando una canzonetta di Aldo Fabrizi, “Nel Duemila”, si era negli anni ’30, pensavo realmente al Duemila come a una grande epoca, evoluta, progredita ed emancipata; non la vedrò mai, ma disporrò affinché queste mie rivelazioni usciranno nel nuovo millennio avanti. Ora Penelope incrocia la x sulla scheda elettorale e questo è bene e mi fa appartenere alla modernità, ma la mia vita è stata la rissa con la barbarie degli uomini.
Ma veniamo subito agli accadimenti.
Gli accadimenti sono pochi e brutali e come tali hanno l’elenco che taglia e corrode corpo e anima:
-a sei anni, in collegio dalle Suore Beata Rosa Venerini, durante le prove generali della prima comunione, ricevo in bocca la prima ostia, seppur non quella ufficiale, quella arriverà il grande giorno, ma nella materia è la stessa e la transustanziazione non c’è. Quella prima ostia della mia vita subito attenta alla mia vita, appiccicandosi al palato e chiudendomi l’ugola. Soffoco e provo ad aiutare i polmoni, staccando quella pappa con le dita: sacrilegio! Le suore mi trascinano per i capelli fuori dalla cappella e mi puniscono per aver toccato con le mie dita peccatrici di bambina di sei anni il corpo di Cristo. Ma non erano le ostie della brutta copia?
-e ancora: sono poco più di un’adolescente e l’uomo, l’adulto, si presenta a me sotto forma di divisa, uniforme, bello, militare, galante e gode subito del verbo comandare, esigere, desiderare e pretendere, concedere e determinarsi, intendere e ordinare. E’ me che richiede e a tanta forza, la sua, conviene tanta debolezza, la mia e allora l’amo o è giogo, subordinazione? Il tempo non c’è per rispondermi, perché quello che io credevo di donare in amore non è e succede lo stupro e tutto adesso è un’altra cosa;
-e ancora: gravida, sono cacciata di casa da mio padre, mentre mia madre m’incoraggia di appellarmi alla Santa Vergine, anche lei gravida, ma incontaminata; quanto mi è accaduto dovrà essere velato per sempre dal silenzio che uccide;
-e ancora: nel 1913 nasce mio figlio, uguale al padre e da lui non riconosciuto e io ho vent’anni;
-studio, lavoro, imparo il fango e la polvere, ma tiro avanti;
-amo mio figlio Massimo, ma nel 1920 a sette anni, mi viene strappato via e rinchiuso nel manicomio dell’ospedale Santa Maria della Pietà di Monte Mario, dove non mi è permesso vederlo;
-la mia vita senza mio figlio si rabbuia ed è tutto un de profundis;
-le mie uniche amiche che mi saranno accanto per tutta la vita sono Maria e Valentina: Maria Montessori in quegli anni ottiene la nomina di assistente presso la clinica psichiatrica dell’università e mi offre la spalla su cui piangere; Valentina H. ha un ristorante, dove mangio e mi confido, e mi offre la spalla su cui piangere; e  ancora: nel 1924 succede il delitto Matteotti e il Fascismo si rivela nella sua brutale natura;
- e ancora: Maria Montessori mi confida di essere anche lei una ragazza-madre, ma il suo segreto rimarrà tale per sempre. Ella ebbe un figlio da Giuseppe Ferruccio Montesano, uno dei fondatori della Psicologia e Neuropsichiatria infantile italiana.
-grazie all’intervento di Maria Montessori, mio figlio viene accolto nella prima “casa dei bambini”, quella da lei fondata nel 1907 a S. Lorenzo. Posso riabbracciare mio figlio, ma lo trovo instabile e disturbato, mi rifiuta.
-rigettata da mio figlio, ammattisco quasi. Non voglio più mangiare, ne’ bere. Valentina H. mi convince che il piccolo Massimo, nella sua disperazione e solitudine ha il diritto di poter contare su sua madre, anche in forma indiretta e anonima.
-l’esistenza è fango, ma devo fertilizzare la gioia di vivere per amore di mio figlio e allora scrivo e disegno, dunque sono circondata da Bellezza e Dolore.
-e ancora: il padre di mio figlio è divenuto un illustre ufficiale dell’esercito ed esponente del Fascismo. Egli sta per sposare una donna per formare la Famiglia, solennemente confermata dalla legge e santificata dalla religione. Non pago di una vita che gli sorride, si fa un ulteriore regalo di nozze: rigettare mio figlio in manicomio, per allontanarlo da sua madre definitivamente e cancellare così quel figlio illegittimo.
-grazie a mio figlio, posso affermare di essere stata a contatto con l’anima e di non essere una superficiale. Quando si è in contatto con l’anima si diventa semplici come bambini. Scrivo e disegno e mi sento di essere profonda, ma gli altri puntualmente si ritengono di essere più intelligenti e sorridono. Ecco di nuovo il nemico della mia esistenza: il pregiudizio.
-quando il pregiudizio intralcia i rapporti, la pubblicazione delle opere, la conversazione, allora la sola cosa da fare è di accettare ogni cosa e, per quanto strano possa sembrare, si può essere molto più felici. Circondata dai miei oggetti, dai libri e dai fiori, potevo sentirmi libera e felice. Diversamente, in quegli anni decisivi ma durissimi, alcuni artisti, fragili e meno portati a star di fronte al pregiudizio o a spazzarlo via, venivano relegati al ruolo di animali in via di estinzione. Destinataria degli appunti e dei diari di pittori come Antonio Donghi e Riccardo Francalancia, io potevo accorgermi del dolore profondo e incurabile dato dall’esser visti come relitti del passato, fuori dalla storia e dall’Europa.
Ora che sono morta, le mie riflessioni verranno accolte da una società evoluta sicuramente, ma il pregiudizio sarà sempre la bestia contro cui lottare. Il mio muto mondo del dolore e i miei romanzi sono portavoce di esso. La mia amica Maria Montessori, riparata all’estero, ha combattuto la sua battaglia contro il pregiudizio per via scientifica, pedagogica e intellettuale. Io, che provengo da quella terribile filantropia del IXX° secolo, di collegi religiosi, colonie estive, dittature distruttive, ho avuto l’Arte come alleata, perché artificio o inutile come l’Arte deve essere, perché simbolo.
Il padre di mio figlio e il padre del figlio illegittimo di Maria Montessori, quando morirono ebbero solenni funerali di Stato. Quando ho potuto rivedere la madre del padre di mio figlio, ormai molto vecchia, le avevo riferito di aver adottato un nome d’arte al posto di Pesante. Sconvolta, ella aveva subito telefonato alle sue amiche scimunite, dicendo di avere una nuora mancata pazza che ora si fa chiamare “Melanogatto”. L’eleganza di una Melanogaster storpiata dalla volontà di ascoltare un nome sotto l’ala nera del pregiudizio.

                                                                               4 Febbraio 1975

                                                                              Europa Pesante in arte Drosophila Melanogaster






Rossella Alessandrucci (LaStellinaArteContemporanea), Massimo Napoli, Claudia Quintieri



Drosophila Melanogaster di Massimo Napoli - testo critico di Claudia Quintieri

Drosophila Melanogaster

Chi è Drosophila Melanogaster? Una scrittrice di successo, ma ancora prima una madre. Al secolo Europa Pesante, nata a Roma nel 1893 vi è morta nel 1975. Nella sua vita ha incontrato soprattutto avversità: dal punto di vista creativo ha dovuto fondare una sua casa editrice, “Edizioni della Palude”, perché, tramite Natalia Ginzburg, l’Einaudi aveva riveduto e ridotto i suoi romanzi. Da un punto di vista personale, quando era giovane, ha incontrato un illustre ufficiale dell’esercito ed esponente del Fascismo che l’ha messa in cinta di suo figlio Massimo, e che, non solo ha disconosciuto il bambino, ma lo ha anche fatto internare in manicomio per costruirsi una nuova vita. Massimo Napoli è riuscito a salvare dall’oblio la figura di questa grande donna che, come scrittrice, si è occupata soprattutto del conflitto fra individuo e società, e nel privato, anche. Per celebrarla ha organizzato un evento alla memoria, una mostra. Nella prima sala, L’ANTICAMERA, la gigantografia della foto di Drosophila scattata nel 1977: ma com’è possibile dato che lei muore nel 1975? Forse è deceduta dopo? Forse è sbagliata la datazione della fotografia? Su questo non ci sono fonti certe. Poi ci si imbatte ne LA PRESENTAZIONE, dove è esposta la sua  fotografia insieme alla sua biografia scritta da Napoli e l’elenco dei titoli dei suoi romanzi. Segue L’ESPOSIZIONE dove sono poste dieci copertine dei romanzi di Drosophila, da lei disegnate con i pastelli. Si continua con la sezione LE SERVE STANNO IN CUCINA. dove sono  in esposizione quattro disegni dal titolo “L’utensileria da cucina della buona matrigna” realizzati da Massimo Napoli. E si finisce con una sala dove c’è una busta, il nome della sala è MANIFESTARE IL SEGRETO EPISTOLARE DI DROSOPHILA MELANOGASTER  e nella busta il suo testamento che sarà divulgato ripetutamente da una registrazione recitata da Massimo Napoli. Massimo Napoli, attore e disegnatore, appare come curatore di questa mostra, ma in realtà ne fa parte, vi si inoltra sia come voce recitante che come pittore che come biografo: entra ed esce dalla mostra come se essa fosse un suo personaggio.  Chi è veramente Drosophila? Ne abbiamo testimonianza solo dalle parole e dalle ricerche di Napoli: cos’è veramente reale, cos’è immaginazione? Sulla scena teatrale il personaggio che muore, muore veramente? Eppure quando ci troviamo di fronte ad una simulazione l’emotività può rendere reale ciò che appare. Non ci capacitiamo di ciò che abbiamo di fronte, verità o finzione. Secondo la “leggenda” Drosophila ha avuto una vita intensa, in lei convivevano varie anime. Era una contraddizione in termini perché la traccia della sua esistenza l’aveva portata ad un’ambiguità sempre calata nella purezza d’animo. Non riusciva a gestire in maniera equilibrata il lato sociale, aveva questa attrazione repulsione verso la vita artistico letteraria dell’epoca, siamo a cavallo fra le due guerre. Una delle cause possibili è che nell’ambito sociale spesso bisogna costruirsi una sorta di maschera che non permette di mostrare ciò che è la realtà emotiva delle persona, nel caso di Drosophila parliamo della sofferenza per un figlio maledetto, ricoverato in un ospedale psichiatrico. Quindi, da una parte rimaneva incastrata nella costrizione di dover nascondere la situazione personale per apparire in una società con degli schemi, dall’altra parte i suoi sentimenti erano connaturati ad un vissuto cui non si poteva sottrarre, motivo per cui aveva anche bisogno di isolarsi dal mondo. Fra apparenza e sostanza . Nonostante lei sia stata una donna di successo era stata colpita nel lato in cui la donna è più vulnerabile, quello materno, quando le avevano sottratto Massimo, quindi aveva questo profondo buco affettivo dovuto al figlio, che inoltre la rifiutava perché si sentiva abbandonato, e che la faceva andare in profondità, in contrasto con una superficialità mondana. E poi nell’artista coesistono necessità ambigue come quella di esserci e non esserci: l’artista ha bisogno di apparire però ha anche bisogno di rifugiarsi, di sottrarsi, per sua indole. Non è un caso che Drosophila scrivesse e dipingesse. Solo le sue due amiche Maria Montessori e Valentina H. sapevano la verità sul suo conto e le stavano vicino.  E sempre ritornava e appariva il tema del pregiudizio nella vita di Drosophila, nel rapporto fra privato e sociale, tema che si manifesta in mostra sotto diverse forme.  “Le serve devono stare in cucina”, che è il titolo della quarta sala dove vi sono i disegni di pentolame firmati da Napoli, ne è una manifestazione. Questi disegni si ispirano ad una parte del libro “La folla delinquente” di Drosophila: qui la protagonista vuol far fare un cappotto su misura alla sua serva, ma la sarta si rifiuta perché se si venisse a sapere che ha fatto un cappotto ad una serva potrebbe perdere delle clienti. La protagonista controbatte che anche la serva è una donna, ma non c’è niente da fare, alla fine la sarta non vorrà confezionare il cappotto: quale dimostrazione più eclatante di pregiudizio? E di nuovo il pregiudizio quando Drosophila andrà a parlare con la madre dell’uomo che l’ha messa in cinta, la donna è talmente maschilista e protettiva verso il figlio, anche se si è comportato così come si è comportato, che quando la nostra le spiega che si fa chiamare con uno pseudonimo l’anziana risponde, come si legge nel testamento: “ ho una nuora mancata pazza che ora si fa chiamare “Melanogatto”” non capendone il motivo e senza ascoltare ragioni.  E nel testamento Drosophila parla di come Massimo le abbia dato la felicità facendola entrare in contatto con l’anima che permette di ritornare bambini. Il testamento, quindi, è recitato da Napoli, che si chiama come il figlio di lei. Casualità? E se Napoli volesse far sentire la sua presenza come genitore della storia attraverso questa omonimia, come quando nei dipinti antichi il pittore si ritraeva dentro ad un proprio quadro? Connaturandosi con la possibilità di scivolare fra i suoi personaggi , di acquisirne a tratti alcune sfaccettature. E si insinua un altro dubbio: la voce è maschile e: “se fosse il figlio a leggere il testamento della madre? Così la storia non avrebbe tempo, i due sarebbero nel “sempre”, congiunti senza epoca. Finalmente insieme contro il pregiudizio.” Così, poi, le diverse ipotetiche situazioni in cui è stata scattata la fotografia sarebbero tutte esatte perché i vari percorsi possibili nascerebbero da possibili incastri temporali che alla fine diventerebbero atemporali e conviventi:
La fotografia ritrae la scrittrice durante una sua visita ai pazienti del reparto di psichiatria del Policlinico Umberto I° di Roma.
La fotografia ritrae la scrittrice in posa per i suoi ammiratori, durante uno dei suoi ricoveri al reparto di psichiatria del Policlinico Umberto I° di Roma.
La fotografia ritrae la scrittrice, quando visita suo figlio, ricoverato presso il reparto di psichiatria del Policlinico Umberto I° di Roma.
La fotografia ritrae la scrittrice per l’ultima posa prima di saltare giù con suo figlio dalla finestra dell’ultimo piano del reparto di psichiatria del Policlinico Umberto I° di Roma.
La fotografia è del 1977?    

Claudia Quintieri



Catalogo il sangue delle donne prefazione




IL SANGUE DELLE DONNE
 Tracce di rosso sul panno bianco
prefazione al catalogo


Il sangue delle donne
Tracce di rosso sul panno bianco

Ero in Arabia Saudita quando mi è giunta inaspettata la mail di Manuela De Leonardis che mi proponeva Il sangue delle donne, un progetto nato dal ritrovamento casuale, in un mercatino rionale, di alcuni panni di lino d’epoca usati nella prima metà del Novecento dalle donne durante il ciclo mestruale.
Manuela ad io abbiamo lavorato insieme lo scorso anno su un progetto di Susan Harbage Page, trovandoci molto in sintonia. Per questo motivo avevo piacere di ricevere una sua proposta, ma letta da lì, dalla zona più fondamentalista dei paesi arabi, la parola “mestruazioni” mi è sembrata come un’indecenza, quasi scabrosa e la parola “pannolino” assumeva un suono sgradevole, vecchio, di una antica quotidianità non adatta ad un pubblico educato.
Giravo per la città di Gedda, ed ero completamente avvolta in una abaya nera. Entravo nei negozi, nei centri commerciali e vedevo donne indossare un velo che spesso copre anche gli occhi, donne che non possono misurare i vestiti che acquistano e che per scegliere della biancheria intima devono andare in reparti separati, accuratamente nascosti allo sguardo di ogni cliente.
In questo clima di estremo occultamento del corpo femminile mi sono ritrovata a decidere se fare o meno questa mostra e proprio questo ambiente mi ha convinto a sostenere il progetto.

In un primo momento, ancora pervasa da un ostinato conformismo, ho proposto a Manuela di cambiare il nome, usando un titolo più elegante, trasformando Il sangue delle donne in Tracce di rosso sul panno bianco, ma poi ci siamo guardate negli occhi e abbiamo realizzato quanto la parola sangue” dovesse essere mantenuta, così profonda, efficace, così li abbiamo usati tutti e due.
Ho suggerito di approfondire l’argomento con una pubblicazione, che ci consentisse di parlare di qualcosa del quale ancora il mondo e, soprattutto le donne stesse, si vergognano.

Tramite questo progetto artistico ho scoperto la poetessa indiana Rupi Kaur censurata su Istagram,  solo per aver postato una propria foto sdraiata sul letto con una macchia di sangue sui pantaloni;  ma anche l’atleta Kiran Gandhi che ha corso la  maratona di Londra, nel periodo mestruale, senza usare assorbenti per sentirsi più libera. Profondamente consapevole di combattere il fatto che le donne si sentono "stigmatizzate" ogni volta che hanno le mestruazioni.

Mi sono riaffiorate le parole di Diane Di Prima in “Memorie di una Beatnik” riguardo la sessualità di Jack Kerouac  pronto a scopare donne mestruate. Negando così  la consuetudine che gli uomini non amano avere rapporti sessuali con donne durante il ciclo, come il ricordo di un’intervista televisiva di Pif ad un transgender, sconcertato per avere ancora le mestruazioni nel periodo di transizione da donna a uomo,  in quanto ormai del tutto estraneo a  questo fenomeno così profondamente femminile.

Le mestruazioni sono qualcosa che viene dall’interno del corpo, dalle profondità di un mondo che ogni donna possiede ma che mai vengono percepite coscientemente. Il sangue ha un impatto forte sugli esseri umani non essendo abituati a vederlo. Si ha un rapporto fisico con il sangue soltanto a seguito di una ferita, di un taglio, in situazioni sgradevoli e patologiche. Il sangue è qualcosa di occulto e la sua visione non evoca altro che dolore e morte.
Le donne, pur avendo un rapporto più frequente con il sangue tramite le mestruazioni, analogamente non lo amano: rimangono sgomente nello scoprirlo per la prima volta durante il menarca, sono nevrotiche durante le sindromi premestruali, doloranti nei giorni del ciclo, infine sono disperate nel dirgli addio con caldane e depressione. Mai un gesto di gioia e di compiacimento per averlo come compagno di vita per un periodo così lungo. Eppure è l’unico mezzo per dare all’essere umano una continuità, almeno per ora.

Le artiste invitate a rappresentare questo progetto hanno usato il linguaggio a loro più congeniale per celebrare un evento che si perpetra dall’origine del mondo e per riuscire a trasformare in entusiasmo e vitalità ogni traccia di disprezzo del corpo femminile.

                                                                                      Rossella Alessandrucci



Essere comune per diventare Unico - testo critico by Rossella Alessandrucci hUman Tribe by Jorit AGOch

Testo critico by Rossella Alessandrucci
hUman Tribe by Jorit AGOch



Essere comune per diventare Unico

Era una delle tante email di artisti che proponevano di esporre le loro opere nella mia galleria.
Guardai come sempre le foto, ma questa volta rimasi molto colpita dalla forza che emanavano le immagini.  Non contattai l’artista, anzi lasciai che il tempo passasse, fino a che dopo aver visto la reazione delle persone alle quali mostravo le foto,  mi decisi a chiamarlo.
Contattare Jorit AGOch significa entrare nel suo mondo, significa seguirlo nei suoi viaggi. Fin dall’adolescenza  inizia a viaggiare. L’ Africa è il luogo dove ritornerà più  volte e dal quale trae il desiderio di approfondire  la ricerca sul volto umano.  Intuisce che le differenze di razza, di sesso,  di religione e classe sociale sono infinitamente meno significative rispetto alle caratteriste morfologiche che accomunano gli esseri umani. Tutti i successivi viaggi in Australia,  Cuba, Paesi Arabi non fanno altro che radicare in lui la consapevolezza che i  tratti somatici rivelano la comunione profonda esistente tra gli individui.
E’ proprio questa ricerca che identifica i lavori di Jorit, entrare nei volti alla scoperta del loro valore intrinseco, cercare il segno comune che unisce gli Uomini ha qualcosa di religioso, di spirituale, qualcosa che va oltre Il normale concetto di estetica.
L’hUman Tribe è proprio una ricerca Etica caratterizzata dai segni che Jorit  imprime sui visi. Le due righe rosse marcate sulle guance del volto sono prese da antichi riti di iniziazione praticati da tribù africane, ma che oggi, in una società così trasformata, servono più di un tempo a significare quanto l’essere umano ha la necessità di appartenere ad una comunità che non lo faccia sentire isolato, staccato, solo.
Cosa può essere più agglomerante che la razza alla quale esso appartiene:  la Razza Umana.
L’ hUman Tribe, già l’impatto visivo del titolo evoca un simbolo.
Attraverso l’essere comune che  l’umanità  assurge a divenire Umanità, solo riconoscendo di essere comuni ad altri che l’Essere Comune diventa Unico.
E’ per questo che ci piace Jorit, perché ci parla di concetti GRANDI, come grandi sono i suoi ritratti e  immagini che siano frutto di  un uomo  adulto, massiccio, magistrale, gigantesco,  invece quando lo incontri scopri un ragazzo giovanissimo con la faccia pulita, sicuro che ciò che vuole è conoscere i suoi simili  attraverso la curiosità, lo studio e  la ricerca.



                                                                                              Rossella Alessandrucci


English version


To be common to become Unique

It was one of the many mails of the artists who want to show their works in my gallery. I looked at the photos as I used to do, but this time I was very surprised by the strength that came out of them. I didn’t get in touch with the artist and let the time go by until I saw the reaction of people whom I showed his works to, therefore I decided to call him. Getting in touch with Jorit AGOch means entering his world, it means to follow him within his travels.
He started travelling since adolescence. Africa is the place where he came back many times and where he got the desire to study in depth the human face. He perceives by intuition that differences about race, sex, social classes and religions have less significance in front of the morphological traits. The successive travels to Australia, Cuba and the Emirates strengthen his awareness that faces reveal the deep  common between people.
It’s exactly this research that distinguishes Jorit’s works; going into the faces to discover the real value looking for the common sign which connects people has something religious, spiritual, something that gets over the normal aesthetic concept.
Human Tribe is exactly an ethical research, characterized by the signs impressed from Jorit on the faces. The two red lines impressed on the cheeks are taken from the ancient initiation rituals of African tribes, that today, in our Society, need more than one time to signify how much the human being needs to belong to a community which wouldn’t leave him alone.
What is more binding than the race we belong to, the Human Race?
The hUman Tribe is just a symbol-
Being an ordinary person, humanity becomes Humanity. Only recognizing being like the others Ordinary people become Unique.
For this reason we like Jorit, because he talks about BIG concepts, because big are his portraits and we believe that they are the work of a strong, huge, man ; whereas, when you get in touch with him, you see a very young boy with a clear face but it’s sure that his aim is to know the others through curiosity, research and study.

                                                                                                     Rossella Alessandrucci

Un' amazzone in galleria - testo critico di Stella Bottai



di Sasha Huber




Un’amazzone in galleria
di 
Stella Bottai

Sasha Huber è un’amazzone nel panorama dell’arte contemporanea. Questa è stata l’impressione che ebbi la prima volta che la incontrai a Helsinki, alcuni anni fa, presentatami da un’altra grande artista nordica, Marita Liulia. E come chiamare se non ‘amazzone’ l’artista che sale su un elicottero per piantare su una cima alpina il ritratto dello schiavo Renty, per ricordare gli atteggiamenti razzisti dello scienziato svizzero Louis Agassiz (1807-1873) a cui la vetta è dedicata (Rentyhorn, 2008)? Due anni dopo Sasha Huber si reca a cavallo a Praça Agassiz, nei sobborghi di Rio, e racconta con un megafono agli abitanti chi era colui che ha dato il nome alla piazza, un eminente studioso, sì, ma anche tra i primi teorici dell’apartheid (Louis who? 2010). Solo due esempi delle numerose performances che l’artista compie per mettere in atto una revisione storica sulla figura di Agassiz e su alcune personalità tramandateci dalla storia, il cui operato ha finito per rivelarsi in atteggiamenti discriminatori, talvolta finiti in tragedia. E per pareggiare i conti che le vittime di soprusi, razzismo, dittature, genocidi hanno con i loro carnefici, la Huber imbraccia dal 2004 una sparapunti come fosse un fucile e colpo dopo colpo – ricordate Niki de Saint-Phalle che sparava il colore sulle tele? – tratteggia con i punti metallici i volti di personalità da lei rimesse in discussione e delle loro vittime (Shooting back, 2004 -).

I love JaNY è il progetto del 2010 che affronta in modo più intimo il tema caro all’artista, quello delle radici culturali e dello sradicamento. Le foto e il video in mostra ricostruiscono il ritratto di Jany Tomba, zia dell’artista, che negli anni Sessanta fuggì la dittatura di Haiti per stabilirsi a New York. Grazie alla sua radiosa bellezza per Jany si aprirono le porte della moda. I tratti esotici, il colore della pelle, i capelli ricci ne fecero un’icona di stile e non solo: la capigliatura crespa che Jany rifiuta di allisciare – come era convenzione all’epoca – sarà una scelta significativa, non solo per le donne di colore. Una storia a lieto fine, raccontata lievemente, ma in cui si percepisce il desiderio di Sasha di riallacciare un filo con la sua discendenza haitiana e raccontare la storia di quest’isola: la povertà, la dittatura, il recente terremoto (Haïti Chérie, 2010-11). I love JaNY tende idealmente la mano al progetto presentato a LaStellina ArteContemporanea nell’ottobre del 2014, Objects from the Borderlands: Anti-Archive from the U.S. Mexico Border Project di Susan Harbage Page, a cura di Manuela De Leonardis. In galleria erano proiettate foto di oggetti che l’artista ha rinvenuto lungo la frontiera tra gli Stati Uniti e il Messico, appartenuti a migranti che tentarono di passare il confine e di cui non conosciamo l’identità, gli esiti del loro viaggio. Se Susan Harbage Page vuole far parlare attraverso la catalogazione di oggetti e la loro poetica solitudine il passaggio di vite umane da uno stato all’altro (e da uno Stato all’altro), Sasha Huber provoca la Storia per mettere in discussione ciò che essa ci ha tramandato, ciò che crediamo di sapere, evidenziando forme attuali di neocolonialismo. Due artiste diverse nella resa artistica ma accomunate dalla sensibilità per una crescente moltitudine di senza nome che pagano il prezzo degli equilibri politici ed economici contemporanei.  

Oggi Sasha Huber è una delle più interessanti artiste internazionali. Presente in Finlandia come in Brasile, a Haiti come in Francia, in Australia come a Londra, mancava alla sua espografia proprio l’Italia, a cui è legata per aver completato qui parte della sua formazione artistica con una residenza a Fabrica di Benetton. Con i galleristi Antonio Martini e Rossella Alessandrucci de LaStellina ArteContemporanea siamo lieti di averla portata per primi nel nostro Paese, certi che sarà solo l’inizio di una lunga serie di incontri per conoscere meglio il suo lavoro.

Stella Bottai


English Version


An amazon in the gallery
di
Stella Bottai

Sasha Huber is an amazon in the contemporary art scene. Such was the impression I got the first time I met her in Helsinki, some years ago, introduced to her by another great Finnish artist, Marita  Liulia. How could you call otherwise than 'amazon' the woman who boards a helicopter to plant on a mountain top the portrait of the slave Renty, to remember the racist attitudes of the Swiss scientist Louis Agassiz (1807-1873) to whom the peak was dedicated (Rentyhorn, 2008)? Two years after, Sasha Huber went on a horseback to Praça Agassiz, in the suburbs of Rio, telling with a megaphone to the local people the story of the man to whom the square was dedicated : eminent scholar, yes, but also one of the first theorists of apartheid (Louis who? 2010). Only two examples of the many performances that the artist makes to re-frame in History the figure of several personalities whose work eventually resulted in discriminatory attitudes, sometimes ended in tragedy. Last but not least, Huber embraces from 2004 a staple-gun like a rifle, outlining with the staples the profiles of prominent historical figures. Shot after shot she equalizes the score with the executioners of the victims of abuse, racism, dictatorships, genocides, remembering  Niki de Saint-Phalle shooting the color on the canvas (Shooting back, 2004 -).

I love Jany is a project of 2010, dealing in a more private and intimate way with the artist's themes : the cultural roots and the uprooting. The photos and the video reconstruct the portrait of Jany Tomba, aunt  of the artist, who fled in the Sixties the Haitian dictatorship to settle in New York. Thanks to her radiant beauty the doors of fashion opened to Jany. Her exotic features, skin color, curly hair made her an icon of style, not only in the fashion world. Refusing to smooth her kinky hair - as was in use at the time – was for example a significant choice, not only for black women. A story with a happy ending, told with lightness, but where emerges Sasha's desire to reconnect with its Haitian ancestors and tell the sufferances of this island: poverty, dictatorship, the recent earthquake (Haïti Chérie, 2010 -11). I love JaNY project tends ideally a hand to the previous project proposed at LaStellina ArteContemporanea  in October 2014, Objects from the Borderlands: Anti-Archive from the US Mexico Border  Project by Susan Harbage Page, curated by Manuela De Leonardis.  The artist showed pictures of objects that she found along the border between the United States and Mexico, belonging to migrants who attempted to cross the border and whose we do not know the identity. If Susan Harbage Page talks through the cataloging of objects and their poetic solitude about the shift of life from one state to another (and from one State to another), Sasha Huber challenges History to question what it has handed down to us, what we think we know, highlighting contemporary forms of neo-colonialism. Two artists with a different artistic language, but tied by the same sensitivity towards a growing multitude of nameless who pay the price of contemporary political and economic balances.

Today Sasha Huber is one of the most interesting international artists. Present in Finland as in Brazil, at Haiti as in France, in Australia as in London, her CV just lacked an Italian exhibition, the country where Sasha has completed part of his artistic training. With Antonio Martini and Rossella Alessandrucci, the owners of LaStellina ArteContemporanea, we are pleased to have brought her for the first time in our country, certain that it will be just the beginning of a long series of events devoted to her work.

Stella Bottai

Sewing Politics: The U.S.–Mexico Border Susan Harbage Page

Sewing Politics: The U.S.–Mexico Border
Susan Harbage Page  




Nella sua performance "Sewing Politics: The U.S.–Mexico Border”, Susan Harbage Page umanizza e anima le costruzioni immaginarie dei confini di Stato. Harbage Page concretizza gli spazi in continua evoluzione delle frontiere internazionali attraverso le azioni basate sul lavoro di cucito, la cancellazione, la rottura, e l’incollaggio; la creazione di una narrazione e memorizzazione che sfida storie dominanti.

"Per otto anni ho documentato e raccolto gli oggetti provenienti della frontiere fra gli Stati Uniti e il Messico, creando un "Anti-archivio" che sfida chi è degno di documentazione, attenzione e memoria. Il mio lavoro sulla frontiera—un punto di infiammabilità nel confine geopolitico—in cui viene contestato il concetto di corpi (razza), status (rifugiato leggi pure "illegale"), e le storie che sono legati insieme, è una testimonianza che serve al suo scopo solo coinvolge altri testimoni. La prossima pubblicazione del libro d'artista "Anti-Archive: Un Libro di oggetti dai confini degli Stati UnitiMessico" catalogherà questo anti-archivio, creando un oggetto tangibile che possa essere una sorgente primaria per studiosi e cittadini al fine di essere coinvolti e interpretare. Il libro funzionerà come una sorta di reliquiario, con fotografie accompagnate da ritagli di stoffa."

Bio:
Susan Harbage Page è un’artista visuale con un background in fotografia e performance che esplora le intersezioni di razza, classe, genere, immigrazione, lavoro e nazione. Il suo lavoro è stato esposto a livello internazionale in Bulgaria, Francia, Cina, Italia, Israele e Stati Uniti e fa parte delle collezioni di importanti musei, tra cui: Baltimore Museum of Art, Baltimore; The High Museum of Art, Atlanta; The Museum of Fine Arts, Houston e the Israel Museum. Susan Harbage Page ha conseguito numerose borse di studio da parte del North Carolina Arts Council, della Carmargo Foundation, e the Fulbright Program. E’, inoltre, Assistant Professor presso il Dipartimento di Women’s and Gender Studies at the University of North Carolina at Chapel Hill


http://susanharbagepage.blogspot.com/

GG Son of the South PR - Testo critico a cura di Alan Jones


   Paul Russotto                                                                              foto di Arianna Lodeserto
  

POEM FOR PAUL RUSSOTTO
                                              A series of pictures one upon another                                                                     
                                                                   Charles Baudelaire
Chill early morning Paris spring 2013 looking out from a window onto the small courtyard
Hôtel du Dragon three doors up from Cahiers d'Art
Christian Xervos pace editor of books both popular and beautiful
chambre - petit déjeuner - chambre - petit déjeuner
The clouds are moving eastward from the Atlantic
to the indifference of a clear fleur de lis blue sky
halfway to Switzerland where they stop to rest
jumbo cottonballs among the Alps
then to follow after Hannibal and Bonaparte down onto the plains of Lombardy where foreign clouds wed native fog
Across from the window
latticework crosshatching ivy green and crinolated to let the gaze go
beyond adjacent wrought-iron balcony balustrades arabesque kittycorner to the coiled hose
and maritime life-buoy emblem of Paris of painters and of poets fluctuat nec mergitur back to the ivy
overlaying latticework in simultaneous visual cognition
an inevitable geranium on a window ledge
"So here we have these various planes..." I can hear Russotto explaining to the un-
initiated the arcana of painting
while his hands demonstrate cubistic signals at face-level
SCRIPTIONS
JARGONS
GRIBOUILLIS
KRITZELTRIEB
An elevator shaft meets up with a ventilator duct
What poets learn from painters is an open question
Gautier Baudelaire Laforgue Verlaine Apollinaire
"Cavalry Crossing a Ford" a small canvas painted by Walt Whitman
Malarmé chez Manet and the blue-grey skein of smoke still meanders from his cigarillo
(on the Metro the "alarme" is missing an M)
Ezra Pound at El Prado in Madrid memorizing eyes
Ardengo Soffici Futurista alias Stefan Cloud
Robert Creeley nightwatch with Franz Kline at Black Mountain College
The clouds are moving east
over the broken geometry of the metropolis
the clouds from Spleen of Paris
Then look down:
on the skylight's irregular reflection
the clouds are moving in the opposite direction
Over the rectangular patch of glass reminiscent of a painting by Russotto
(vide Study for Restless 1999 gouache on paper)
the clouds are moving
below the smudged charcoal the ivy and the latticework
the grid of windows and the elevator shaft
The vertical oval porthole of the third floor latrine
the arabesques of balcony and the coiled garden hose
the halfhearted pendulum of the cuckoo clock
and the corridor of mirrors and lithographs
cubistic handsignals at face-level
What poets learn from painters
Lawnchairs facing hilltop Todi
Matisse's garden above Nizza
Fanelli's bar a cave of mirrors
What painters know and what poets if they're lucky come to learn
ut pictura poesis
Jacques the painter at Lascaux chatting
with magicians and musicians
"language..." Willem De Kooning saying "in order to sit around all day talking about art"
and there are worse ways for mankind to spend their hours and their years
"La rue Saint Jacques..." Pierre Soulages  is saying "...was dug up
full of ivory tusks the mastodons who lived on Mont Saint Geneviève
the rue Saint Jacques first trampled down by thirsty mastodons
then by painters and their poet friends
coming down to drink in the evening
at the sacred helicoptered waters of the river Seine

                                                                                                        ALAN  JONES   Paris April 2013